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UN’ALBA DA MIA MADRE Dal balcone della mia casa, 17 marzo attorno alle sei Vito Teti
Autore:     Data: 30/04/2019  
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Data: 31/12/2016 - Anno: 22 - Numero: 3 - Pagina: 4 - INDIETRO - INDICE - AVANTI

CAVADENTI A FOSSAFÙNDA

Letture: 1215               AUTORE: Vincenzo Squillacioti (Altri articoli dell'autore)        

Veniva indicata col nome di Fossafùnda, ed era, difatti, una grande valle piuttosto profonda. Tra
due grossi costoni dell’Appennino che scendono divaricandosi verso il mare, si scorgeva a distanza un
fondovalle impenetrabile e sconosciuto da secoli. Poco più a sud la fervida attività boschiva per l’approvvigionamento
della legna necessaria ai forni delle ferriere borboniche, ma laggiù, nell’inaccessibile
foresta, non metteva piede essere umano. Era convinzione comune che quella grossa fossa ospitasse
soltanto lupi e cinghiali, vipere e tarantole, topi e scarafaggi, tafani e zanzare, a vivere insieme ad erbe
velenose in un’intricata boscaglia di piante senza nome. La vita era laggiù garantita a tutti quegli esseri
da una scrosciante fiumara, che nasceva chissà dove e spariva nella fossa per apparire limpida e bella a
pochi chilometri dal mare.
L’impenetrabilità di Fossafùnda non ebbe, naturalmente, vita eterna. Tre pericolosi briganti, inseguiti
un giorno dai gendarmi dello Stato sino alla barriera non ancora sfondata, per scampare alla cattura
e quindi alla fucilazione, gettarono l’anima al di là di quel confine e poi corsero a recuperarla, tra rovi,
dirupi, rischiosi guadi e animali selvatici, sino a far perdere agl'impacciati servitori dello Stato le loro
tracce, costringendoli a tornare faticosamente e a mani vuote sui loro difficili passi. I tre briganti, intanto,
piuttosto che riapparire alla luce del sole, decisero di affrontare ogni rischio pur di trovare un rifugio
che li nascondesse ai gendarmi. Continuando a fatica la penetrazione nel groviglio della fossa, si trovarono
all’improvviso dinanzi ad un macigno granitico alto alcuni metri appoggiato alla parete rocciosa
di una non elevata altura. Di lato un’apertura, una specie di porta per accedere all’interno, come se una
mano potente e misteriosa avesse voluto creare un rifugio sicuro. E lo fu, difatti, per i tre e per numerosi
loro colleghi e compari per tanti anni politicamente e socialmente tumultuosi.
Per alcuni lustri i briganti sono stati gli unici esseri umani ad abitare a Fossafùnda: quando questa
genìa non ebbe più spazio nel consorzio umano di quell’epoca, la Fossa tornò ad essere disabitata. Ma
per poco, perché in un periodo di carestia numerosi contadini e diversi pecorai dei centri urbani vicini
posarono lo sguardo su quella terra di nessuno, di cui potevano impunemente impossessarsi, dissodarla,
coltivarla e farla produrre pane e companatico per la famiglia. Cominciò così per la valle un periodo di
immigrazione che durò circa un ventennio, perché la fiumara era ricca di viventi commestibili, e il legno
per ogni uso non mancava, e il terreno era vergine e quindi ubertoso, e a terrazzarlo, con zappa, piccone
e tanto olio di gomito, di cui si disponeva in abbondanza, avrebbe prodotto fagiolini da mangiare freschi
e fagioli per il lungo inverno; e nutrienti patate, e squisite zucchine; persino pomodori si facevano nella
parte più bassa; e l’uva fragola nelle pareti terrazzate della valle. Né mancavano il castagno, il ciliegio,
il mandorlo, il noce. Le pecore e le capre avevano sconfinato spazio nel quale brucare; e alle galline non
mancavano angoli soleggiati dove liberamente razzolare.
Un piccolo paradiso era diventato in pochi anni Fossafùnda, anche se mancava delle meravigliose bellezze
e delle vibranti emozioni del mare che non si riusciva a scorgere perché troppo lontano. Contadini
e pecorai, sentita parola, avevano fatto a gara per arrivare dalle contrade vicine e prendere possesso di un
bel po’ di terra. Non vi arrivò un medico, né un avvocato, né un prete…, ma qualche artigiano sì, tra quelli
che nei piccoli paesi al di là della valle facevano spesso la fame per la spietata concorrenza di mestiere che
si facevano tra loro, piuttosto numerosi. Da Colonna arrivò un bottaio che costruiva anche sedie e tavoli;
da Caulo si trasferì con la famiglia una donnina che aveva imparato al suo paese ad aiutare le donne nel
momento di dare alla luce i propri figli: a Fossafùnda cominciò a lavorare da subito, e senza sosta. Un tale
comparve un giorno col suo cavallo, e fu il mezzo di collegamento non solo emergenziale tra la valle e il
paese più vicino. Tra gli immigrati anche un giovine che a Rocca, il suo paese, era apprendista muratore,
ma laggiù costruiva case e forni per cuocere il pane: ma quanti ne sono crollati prima che uno rimanesse
saldo al posto dov’era stato costruito! Arrivò a Fossafùnda anche una giovane sartina, che ebbe tanto da
fare anche lei, per donne soprattutto, ma fu costretta a interessarsi anche di indumenti maschili.
Un giorno mise piede nella valle, in giacca e cravatta, un calzolaio, accompagnato dalla moglie
che cavalcava un’asina, minuta e mansueta. Il nostro ciabattino veniva da Bivingo che aveva abbandonata perché vi faceva quasi la fame, un po’ per le normali difficoltà legate al mestiere, in quanto la
maggioranza della gente camminava ancora senza scarpe ai piedi, e un po’ perché i pochi spiccioli che
raggranellava li spendeva per onorare Bacco con il vino. La moglie, però, era contadina e a Fossafùnda
avrebbe avuto la possibilità di possedere terra propria, e lavorarla producendo per la famiglia. E fu lei,
difatti, a mantenere nella nuova dimora la famiglia, perché mastr’Elia, il marito, aveva poco da lavorare
in quanto nella valle la gente camminava a piedi nudi. Egli, pertanto, passava buona parte del suo tempo
a dormire, e a bere abbondante e squisita spremuta di uva fragola. Sino a quando ebbe l’occasione di
cambiare mestiere, almeno di tanto in tanto. Un giorno si presentò a casa sua un contadino chiedendo
aiuto contro un terribile mal di denti. mastr’Elia gli diede subito alcuni chiodi di garofano che usava per
sé all’occorrenza quando viveva a Bivingo. La terapia funzionò, e presto si sparse la voce nella valle che
il ciabattino fosse anche bravo curatore di mal di denti. Sulla porta di casa non ci mise la scritta DENTISTA,
ma furono sempre più numerose le persone che diventavano clienti del suo secondo mestiere.
E lui, quando notava che i chiodi di garofano non avevano efficacia perché il dente era marcio, usava
le tenaglie da ciabattino per cavare il dente già andato, e poi un bel sorso di forte liquore fatto in casa,
per disinfettare il cavo orale. E nessun paziente mai è morto sotto i suoi ferri. E sulla sua tavola è stato
sempre più abbondante il vino di uva fragola.
Una notte fu lui, il buon mastr’Elia, ad avere un dolore insopportabile in bocca. Dinanzi allo specchio,
con la vista annebbiata per l’abbondante bevuta a cena, vide due denti in buona parte anneriti per la
carie. Non ci pensò due volte: prese dal deschetto le tenaglie migliori che aveva appena fatto comprare,
le infilò nella bocca e cavò i due denti, l’uno dopo l’altro. Poi gargarismi con un abbondante sorso del
solito liquore. E quindi di nuovo a letto, per un non facile riposo.
L’indomani mattina, lo specchio, al quale corse di buon’ora per la verifica, riflesse, tra tanti bianchi
denti, due in buona parte neri per la carie. Il buon ciabattino s’era cavato nella notte due denti sani.
Pianse per il dolore quel giorno. E decise che non avrebbe fatto più il cavatore di denti.



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